Nel 1612 il pittore Agostino Tassi è chiamato a processo per aver usato violenza alla figlia di un collega, Artemisia Gentileschi. La vicenda processuale, di cui conosciamo tutti gli sviluppi grazie alla sopravvivenza degli atti e dei documenti, segnerà per sempre la vita e la carriera di Artemisia.
Un’accusa di stupro nella Roma del Seicento
Roma, febbraio 1612. Dopo aver atteso a lungo, Orazio Gentileschi, un pittore di origini pisane, si risolve a denunciare a papa Paolo V un fatto terribile, avvenuto quasi un anno prima. Agostino Tassi, anche lui pittore, ha violentato sua figlia, la giovane Artemisia Gentileschi, approfittando della complicità di Tuzia, inquilina dei Gentileschi, e di Cosimo Quorli, un amico di Orazio e militare al servizio del papa. Passa soltanto un mese e il pontefice accoglie la richiesta: a marzo inizia così una delle cause più celebri di tutto il Seicento e il processo si legherà per sempre al nome di Artemisia.
Agostino Tassi e Artemisia Gentileschi a processo
Il 28 marzo Artemisia è interrogata per la prima volta e da subito è lei – e non il suo aggressore – a essere sul banco degli imputati: accusata di condotta illecita e di costumi troppo liberi, la sua moralità è messa in discussione da numerosi testimoni. Ma la giovane si difende con forza: accusa Tuzia di averla letteralmente spinta tra le braccia di Agostino Tassi, convincendola a fidarsi di quell’uomo così seducente. Racconta di come per giorni Agostino l’abbia tormentata: la incontra nella Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini e la segue fino a casa, nonostante i ripetuti inviti ad andarsene. Il giorno successivo è nel suo appartamento e riesce a rimanere solo con lei; Artemisia descrive nei dettagli una terribile violenza conclusa con una promessa: “Datemi la mano che vi prometto di sposarvi”. Di fronte alla speranza del matrimonio, Artemisia cede più volte ad Agostino nei giorni seguenti, fino a scoprire che il pittore ha una moglie e quindi non può sposarla.
In carcere, intanto, si svolgono gli interrogatori di Agostino Tassi: il pittore accusa Artemisia di essere di facili costumi, nega ogni rapporto con lei, che invece, “sfrenata” conduce una “cattiva vita”, ben sapendo che lo stupro di una donna disonorata non è perseguibile penalmente. Il giudice lo incalza e Agostino inizia a contraddirsi: non è mai stato solo con Artemisia, no è stato solo con lei, ma mai in una camera, non le ha mai rivolto parola, no le ha parlato solo per consigliarla a intraprendere la retta via.
Artemisia torturata
Artemisia viene visitata da due levatrici e il suo corpo è di nuovo violato. Il 14 maggio è interrogata di fronte al suo violentatore e per essere sicuri che dica la verità è sottoposta a tortura. I giudici le legano delle cordicelle intorno ai pollici e le stringono così tanto da stritolare le falangi, nella speranza di estorcerle il vero. Artemisia non ritratta: “come ho detto mi fidavo di lui, et non haveria mai creduto havesse ardito d’usarmi violenza et far torto et a me et alla amicitia che ha con detto mio Padre, et non mi accorsi se non quando […] mi si mise attorno per violentarmi”.
L’esito del processo
Il 27 novembre 1612 Agostino Tassi è condannato per la violenza contro Artemisia Gentileschi, la corruzione dei testimoni e la diffamazione di Orazio: per la morale dell’epoca è il padre ad aver sofferto di più e quello che conta maggiormente non è l’aggressione alla ragazza ma l’onore perduto della famiglia. Ad Agostino Tassi viene offerta una scelta: cinque anni di lavori forzati o l’esilio da Roma. Tassi sceglie l’esilio, ma la pena non verrà mai scontata a pieno: lascia la città solo nell’aprile del 1613 a seguito di una nuova condanna, questa volta per rissa. Dovrebbe abbandonare lo Stato pontificio per cinque anni e invece si ritira vicinissimo a Roma, a Bagnaia, dove continua a dipingere. Alla fine del 1615 è di nuovo nell’Urbe ed è probabilmente il papa – che apprezza la sua abilità artistica – a richiamarlo in città. Artemisia già vive a Firenze, lontana da Roma dove continuano a circolare su di lei sonetti licenziosi che ne parlano come di una giovane di facili costumi.
Quando affronta il processo, Artemisia ha 19 anni. Nata a Roma l’8 luglio del 1593, dal 1605 è orfana di madre. Il processo per stupro che si svolge tra il maggio del 1611 e il novembre 1612 segna la sua vita e in parte anche la sua carriera: nei decenni a venire, mentre Agostino Tassi rimane il modesto pittore che nessuno oggi ricorda, Artemisia diventa famosissima, e a lei i committenti chiedono soprattutto di dipingere eroine, donne forti, figure femminili che riscattano la loro condizione di supposta inferiorità.
Un dipinto che è quasi un presagio
Il primo dipinto che Artemisia firma – la Susanna e i Vecchioni oggi conservato in Baviera – porta la data del 1610, quando la ragazza ha solo 17 anni: non ha ancora avuto modo di vedere molto né del mondo né dell’arte dei suoi contemporanei eppure il suo stile è già estremamente definito. Nella grande superficie della tela le figure sono a grandezza naturale e il tema – la giovane eroina biblica Susanna spiata da due anziani – permette ad Artemisia di mostrare, per la prima volta, le nudità di una donna dipinte da una donna. Con uno straordinario presagio di ciò che le accadrà qualche mese dopo e forse sta già accadendo, l’artista si mette nei panni di una giovane vulnerabile – violata, anche se solo con lo sguardo – da due uomini maturi.
Artemisia a Firenze
Due giorni dopo la fine del processo Artemisia si sposa con il modesto pittore fiorentino Pierantonio Stiattesi, una sorta di matrimonio riparatore con cui si tenta invano di mettere a tacere lo scandalo. Per lo stesso motivo la coppia si trasferisce a Firenze: qui Artemisia prende il cognome del nonno pisano, Lomi, quasi a ricordare ai committenti di essere di origine toscana. In città conosce un grande successo: il 19 luglio del 1616 è la prima donna a essere ammessa all’Accademia delle Arti del Disegno, l’istituzione che riunisce gli artisti cittadini. Le lettere e gli appunti ci raccontano che la pittrice è molto amata, non solo dagli artisti: frequenta lo scienziato Galileo Galilei e Michelangelo Buonarroti il giovane, il nipote del grande scultore fiorentino, le commissiona un dipinto per la casa dove sta allestendo un museo in onore dello zio.
A Firenze lascia numerosi capolavori, tra cui uno dei suoi dipinti più famosi, Giuditta che decapita Oloferne: mai prima d’allora il gesto violento di una donna era stato rappresentato in modo così cruento. Il dipinto è eseguito intorno al 1620, quando la pittrice è ormai tornata a Roma: quando la tela arriva a Firenze il pubblico ne è turbato e il dipinto viene relegato in un angolo buio di Palazzo Pitti. Artemisia fa anche fatica a farsi pagare, e i soldi le arrivano solo con grande ritardo, grazie all’intercessione dell’amico Galileo.
Da secoli il dipinto, uno delle numerose versioni realizzata dall’artista della stessa scena – un violento omicidio compiuto da una donna – è letto come una sorta di riscatto: Artemisia che punisce il suo violentatore e sogna di arrivare dove la giustizia papale non è mai giunta. Nella tela tutta l’attenzione si concentra su Giuditta, non una statuaria eroina, come in Caravaggio, ma una donna che agisce insieme alla sua ancella con una forza e una risoluzione straordinaria, tanto che i cronisti dell’epoca scrissero che il dipinto suscitava “non poco terrore”.
Gli anni del successo
Intanto, dal 1620, Artemisia è di nuovo a Roma, dove inizia a coltivare una clientela internazionale e dove nasce il mito della donna artista. Non riceve mai la commissione di un altare e quindi nessuno dei suoi dipinti è visibile al pubblico, ma diventa una vera e propria celebrità: ogni ricco romano sembra volere non sono un dipinto di Artemisia, ma soprattutto l’immagine della famosa pittrice, un suo autoritratto. Quando non dipinge se stessa, Artemisia mette in scena soprattutto grandi eroine femminili, Lucrezia, Giuditta, Susanna: questo vogliono i committenti da lei, una donna eccezionale che porta sulla tela altre donne eccezionali.
Tra il 1627 e il 1628 è a Venezia, richiesta da committenti sempre più prestigiosi, e poi all’inizio del 1630, sfugge alla peste e si trasferisce a Napoli, la città più grande d’Italia, dove resta per otto anni: anche qui non manca di riscuotere successi, che culminano in una commissione di tre tele per la cattedrale di Pozzuoli. A Napoli la pittrice fonda una scuola alla quale collaborano i giovani emergenti della pittura napoletana, come Micco Spadaro, Onofrio Palumbo e Bernardo Cavallino e l’arte di Artemisia compie un nuovo salto di qualità. Ma le sfide per lei non sono finite. Fra il 1638 e il 1640 parte di nuovo: dopo lunghe resistenze, accetta l’invito di re Carlo I d’Inghilterra a raggiungere la corte inglese, dove già vive il padre, ammalato, che morirà nel 1639.
Heic Artemisia
L’anno successivo Artemisia torna a Napoli, dove dipinge ancora: due versioni di Giuditta con l’ancella e una Susanna e i vecchioni firmata 1649: curiosamente il suo ultimo dipinto noto ha lo stesso soggetto della sua prima opera documentata. Nel 1656 a Napoli infuria la peste e Artemisia scompare probabilmente in quest’anno come molti dei suoi colleghi.
L’estrema autoconsapevolezza del suo ruolo, fuori da ogni legame di famiglia o di discepolato, è forse leggibile meglio di ogni altra cosa, nella lapide, oggi perduta, che decorava la sua tomba nella chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini di Napoli: “Heic Artemisia”, qui giace Artemisia, non Gentileschi, non Lomi, ma Artemisia per sempre.
Per approfondire
Tutti i documenti del processo di Artemisia sono pubblicati, insieme alle sue lettere, in un volume della collana Abscondita: Artemisia Gentileschi, Lettere precedute da «Atti di un processo per stupro», a cura di E. Menzio, 2020 (Qui il link per acquistare il libro su amazon).
Dal giugno del 2022 un dipinto di Artemisia, la Maria Maddalena in estasi è visibile a Palazzo Ducale, a Venezia: il dipinto arriva da una collezione privata, dopo essere stato esposto nel 2022 alla mostra di Detroit By Her Hand: Artemisia Gentileschi and Women Artists in Italy 1500–1800
A Firenze, il dipinto con l’Allegoria dell’Inclinazione, eseguito per il soffitto della Galleria di Casa Buonarroti, è ora in restauro con un “cantiere aperto” sponsorizzato dalla fondazione Calliope Arts
Il mio volume prediletto sulla biografia e l’arte di Artemisia è di una studiosa americana, Mary Garrard, una delle fondatrici della storia dell’arte femminista: