La Primavera è forse il dipinto più famoso di Sandro Botticelli e, insieme, uno dei più enigmatici. Di questo quadro, esposto dal 1919 alla Galleria degli Uffizi, sappiamo moltissimo, ma qualcosa del suo significato generale continua a sfuggirci.
Di casa in casa
Sappiamo che la tavola fu dipinta per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, non il Lorenzo più famoso, quindi, il Magnifico, ma il suo omonimo cugino, che abitava a Firenze a pochi passi da Palazzo Medici, sempre in via Larga (in quella che oggi è via Cavour). In questa casa, appartenente al ramo cadetto della famiglia, il dipinto si trova alla fine del Quattrocento.
Alla metà del Cinquecento, lo storico dell’arte Giorgio Vasari lo vide nella Villa di Castello, una proprietà che Lorenzo di Pierfrancesco acquista nel 1477. Vasari descrive il dipinto come “una Venere che le Grazie fioriscono, dinotando [ossia annunciando] la Primavera”: la brevità della frase ci fa capire la scarsa attenzione che lo storico dell’arte dedica al dipinto, ormai passato di moda, ma da questa sintetica annotazione si sono mosse tutte le interpretazioni della tavola.
Commissionata intorno al 1480, la Primavera alla fine del Quattrocento stava appesa sopra un lettuccio, un arredo tipico delle case fiorentine signorili, una sorta di cassapanca con schienale.
Un’allegoria matrimoniale
Doveva essere stato commissionato in occasione di un matrimonio nella famiglia Medici, probabilmente quello tra Semiramide Appiani, figlia del signore di Piombino e Lorenzo di Pierfrancesco: le nozze, celebrate nel 1482, furono fortemente volute da Lorenzo il Magnifico, in un momento molto particolare per la storia di Firenze e dei Medici. Nel 1478 infatti, Lorenzo il Magnifico aveva scoperto sulla sua pelle e su quella di suo fratello Giuliano, ferito a morte durante la congiura dei Pazzi, che i Medici erano odiatissimi in Italia: negli anni immediatamente successivi alla congiura il Magnifico tesse, anche grazie al matrimonio del cugino, una nuova rete di rapporti e alleanze allo scopo di mettere al sicuro la famiglia. Il matrimonio del cugino con Semiramide Appiani è importantissimo, perché nel territorio di Piombino ci sono vasti giacimenti di allume, un minerale usato come fissativo nella colorazione dei tessuti e indispensabile all’industria tessile fiorentina.
Un intreccio di miti antichi
Leggere il dipinto come una commissione legata a un contesto matrimoniale ci aiuta nella sua interpretazione.
Procedendo da destra a sinistra incontriamo Zèfiro, il vento di sud-ovest, che insegue la ninfa Clori: per sfuggirgli, Clori chiede di essere trasformata in Flora, la dea della primavera, rappresentata come una donna dallo splendido abito, con il grembo pieno di fiori. Questa vicenda, raccontata dal poeta latino Ovidio nei Fasti, un poema composto nel I secolo d.C., è quella di una mancata violenza carnale, poco adatta, sembrerebbe, al contesto di ricche nozze. Ma dal poema di Ovidio sappiamo che l’inseguimento ha un lieto fine, con il matrimonio tra Flora e Zefiro: certo Semiramide, arrivata giovanissima a Firenze per sposare uno sconosciuto, avrebbe potuto meditare su questa storia di violenza, coronata, se così si può dire, da una legittima unione.
Al centro del dipinto è Venere, inquadrata da un arbusto di alloro o lauro che allude al nome del committente. La dea dell’amore e della fecondità è pudicamente vestita e vistosamente gravida, modello per la giovane sposa e buon auspicio per la futura discendenza della famiglia.
Sopra di lei vola il figlio Cupido che, bendato (l’amore è cieco, lo dice anche il proverbio), dirige le sue frecce verso le tre Grazie.
La raffigurazione delle dee, legate all’amore e all’armonia, sembra derivare da un passo di Seneca, il filosofo della prima età imperiale romana: nel De beneficiis infatti scrive:
“Dei quali benefici ti dirò quali siano la forza e le proprietà se prima mi avrai permesso di trattare rapidamente quegli argomenti che non sono pertinenti all’oggetto del discorso, ovvero per quale motivo le Grazie siano tre, per quale motivo siano sorelle, per quale motivo intreccino le loro mani, per quale motivo sorridano e siano giovani, per quale motivo siano vergini e per quale motivo abbiano delle vesti sciolte e trasparenti.”
L’ultima figura è un maschio, come la prima: Mercurio, alzando il caduceo, il bastone alato con due serpenti intrecciati, simbolo di prosperità e fertilità, allontana le nuvole facendo in modo che nel giardino di Venere, pieno di splendidi fiori e di alberi di arancio, sia eternamente primavera.
Seneca, Ovidio, e forse Columella – sono tante le fonti latine di prima età imperiale dietro alla composizione di Botticelli: sappiamo che il pittore non aveva accesso a questi testi e forse fu Agnolo Poliziano – poeta e umanista della corte medicea – ad approntare per lui il programma per il dipinto.
I Medici e il Neoplatonismo
Se l’identificazione di tutti i personaggi è chiara, qualcosa del significato generale dell’opera continua a sfuggirci: una lezione per la sposa, che osservando il dipinto poteva imparare cosa si aspettava da lei nel matrimonio? O forse, a un livello più alto, un’allegoria dell’amore e della rinascita primaverile, sorta nell’ambiente coltissimo della cerchia medicea. Marsilio Ficino, uno dei massimi esponenti dell’Accademia neoplatonica fiorentina, fondata nel 1459 da Cosimo il Vecchio, rielaborando le teorie di Platone e Plotino, sosteneva che l’anima immortale può conoscere il divino solo grazie all’amore: le figure della Primavera, dunque, creano una sorta di percorso dell’anima in cui – grazie alla bellezza – è possibile arrivare alla perfezione. Dal punto di vista neoplatonico, la nascita del regno di Primavera è un mito che rispecchia un percorso morale di perfezionamento dell’anima: l’amore, nei suoi diversi gradi, da quello irrazionale di Zefiro, alla forma perfetta delle Tre Grazie, eleva l’uomo dal mondo terreno per avvicinarlo a quello spirituale.
Un dipinto per pochi
Come molte delle allegorie che Botticelli crea in questi anni – Pallade e il Centauro o la Nascita di Venere – il dipinto nasce per una committenza privata e sicuramente ristretto e selezionato era il pubblico che poteva ammirarlo.
Dal punto di vista della composizione, il dipinto ha un andamento bidimensionale e lineare: si tratta di una scelta precisa perché la tavola, appesa al muro a fare da sfondo a un lettuccio, doveva assomigliare a un prezioso arazzo fiammingo, un oggetto che, nelle stesse date, sarebbe stata una scelta più costosa per decorare una stanza privata.
Allegoria matrimoniale, o celebrazione politica del suo committente, Lorenzo di Pierfrancesco, che forse in quegli anni avrà sognato di sostituirsi al più famoso cugino, intento a riannodare i fili delle alleanze spezzati dalla congiura dei Pazzi. Il dipinto oggi è uno dei più famosi del Rinascimento e forse una delle icone degli Uffizi, ed è quasi incredibile pensare a come Botticelli fu a lungo dimenticato, per essere riscoperto solo agli inizi del Novecento. Ma questa è un’altra storia, per una prossima puntata…
Per saperne di più sul dipinto vi lascio il link alla pagina nel sito degli Uffizi, dove potete trovare video e podcast, insieme a una breve scheda.